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Passepartout

 

Copertina del testoPresentazione

La sempre più numerosa comunità di extracomunitari presente nella provincia di Forlì-Cesena (n. 10517 stranieri regolari presenti al 28 febbraio 2001) esige,da parte delle istruzioni locali, un progetto di accoglienza che sia capace di coniugare le esigenze immediate di inserimento degli immigrati medesimi nel tessuto produttivo locale con quella, di più lungo termine e più complessa, di integrazione socio-culturale.

Nell'ottica di promuovere le condizioni per una più agevole integrazione degli immigrati si è mosso, fin dalla sua costituzione, il Consiglio territoriale per l'immigrazione che, in questa provincia, ha perseguito coerentemente l'obbiettivo di affrontare quelle problematiche meritevoli di una più sollecita risoluzione: l'accesso al mercato delle abitazioni, notoriamente difficile per gli emigranti; l'accesso a quelle informazioni essenziali che possono agevolare i cittadini extracomunitari nella comprensione delle intrigate normative che li riguardano e nella fruizione di quei beni (diritto alla salute, all'istruzione ecc…) che sono le precondizioni per una reale integrazione socio-culturale.

Si inserisce in tale contesto la proficua collaborazione avviata con il Punto Europa di Forlì allo scopo di realizzare una guida nella quale far confluire dette informazioni.

Informazioni che, allo scopo di favorire la più efficace e diffusa conoscenza, si è pensato di tradurre nelle lingue delle etnie più presenti sul nostro territorio.

Si è così realizzato il Passepartout, uno strumento di facile lettura, recante, in forma sintetica, indicazioni utili per meglio orientarsi tra le molteplici disposizioni normative che regolano la condizione dello straniero e per cogliere le opportunità offerte dalla legge per l'accesso ai diversi e fondamentali servizi socio-sanitari.

Non resta dunque che prendere atto con soddisfazione dello sforzo compiuto e ringraziare tutti coloro che si sono impegnati nella redazione del Passepartout nell'auspicio che esso possa realizzare gli obbiettivi che si sono prefissati.

IL PREFETTO
PRESIDENTE DEL CONSIGLIO TERRITORIALE PER L'IMMIGRAZIONE
( Cesare Ferri )

Prefazione

Perché il Punto Europa di Forlì decide di dedicare una guida agli immigrati o, come si dice correntemente con un brutto neologismo, agli "extracomunitari"? Che rapporto c'è tra la Comunità europea e coloro che si caratterizzano proprio per il loro essere "non comunitari", esclusi dunque da quella relazione che la Comunità stabilisce con i propri cittadini e che si concretizza nell'attribuzione di diritti e nella previsione di doveri?
Innegabilmente il rapporto è oggi labile. Tuttavia, il momento di evoluzione che la Comunità sta attraversando, pur con tutti i suoi limiti, la spinge a interessarsi sempre di più di coloro che, pur non essendo cittadini europei, vivono e lavorano sul suo stesso territorio dando un contributo alla crescita economica, sociale e culturale dell'Unione Europea.
E', forse, una verità scontata che fra i doveri di civiltà che appartengono al comune sentire vi siano anche quelli dell'accoglienza, in particolare di coloro che provengono da realtà di estremo disagio o da situazioni di pericolo. A questo tipo di ospitalità si affianca generalmente, in tutti i Paesi industrializzati, quella, più fisiologica, nei confronti di coloro che lasciano la terra di origine semplicemente per migliorare le proprie condizioni di vita e, magari, contribuire con le proprie rimesse al sostentamento della famiglia in patria. Sono le due categorie dei beneficiari del diritto di asilo e degli immigrati.
La Comunità europea si è interessata poco, finora, di queste due categorie di persone. Sin dalle origini e tuttora, il Trattato CE è espressamente rivolto ai cittadini dei Paesi membri. Dal 1992, con la firma del trattato di Maastricht, il riferimento è ai cittadini europei: ancora, con un altro nome, i cittadini dei Paesi membri.
Il motivo di tale esclusione risale indietro nel tempo: anzitutto, il fenomeno migratorio era, negli anni cinquanta e anche dopo, essenzialmente intraeuropeo. Bisognava che gli Stati comunitari imparassero ad accogliere i cittadini dei Paesi partner, a non discriminarli, ad offrire loro opportunità e condizioni di vita parificate a quelle dei propri cittadini. Il processo che ha condotto alla libera circolazione delle persone è stato lungo e difficoltoso e si è svolto sull'onda di una giurisprudenza che dimostra come progressivamente gli europei abbiano imparato ad impiegare i mezzi di ricorso offerti dal nuovo contesto istituzionale. Al diritto per i cittadini comunitari di accettare offerte di lavoro in un altro Stato membro sono seguiti progressivamente: il diritto di farsi raggiungere dal coniuge nello Stato ospite, di farvi studiare i propri figli, di non essere discriminati nelle prestazioni sociali, e poi ancora il diritto a vedere riconosciuto il proprio titolo di studio e, solo in tempi recentissimi, il diritto di eleggere e di candidarsi alle elezioni amministrative ed europee. Sulla composizione di questa categoria di destinatari delle proprie norme la Comunità non poteva ne può intervenire, giacché gli Stati sono estremamente gelosi del potere di attribuire o negare la propria cittadinanza, né avrebbero accettato la creazione di una cittadinanza europea se questa non fosse stata, come certamente rimarrà, una cittadinanza di secondo grado che si somma a quella nazionale senza sostituirla. Dunque è, indirettamente, compito di ogni Stati membro disciplinare l'acquisto o la perdita della cittadinanza europea che consegue alla propria.
Le norme dei Trattati comunitari sono quindi scritte per i cittadini, e si riassumono nel diritto di circolare e stabilirsi liberamente in un qualunque Stato membro, mentre ogni Paese si riserva di disciplinare autonomamente lo status ed i diritti dei cittadini di paesi terzi. Questi vengono in rilievo e sono equiparati ai cittadini europei, ai fini della libera circolazione, solo in casi circoscritti, ad esempio se coniugi di cittadini o se provenienti da Paesi con i quali la Comunità abbia stretto accordi di associazione che prevedano, tra l'altro, la libera circolazione dei lavoratori (ad esempio la Turchia).
L'assenza nel Trattato CE della categoria dei lavoratori migranti, però, se pure aveva una ragion d'essere al tempo della sua prima stesura, si è rivelata, successivamente, una grave lacuna, sotto due diversi punti di vista.
Anzitutto, si è posto il problema della necessità di una competenza comunitaria a disciplinare il fenomeno immigrazione. Com'è noto la Comunità non ha competenza universale e può occuparsi di una materia solo qualora il suo trattato istitutivo espressamente lo consenta. La mancata previsione di poteri in materia si era dimostrata una grave lacuna particolarmente a partire dai primi anni Novanta. Infatti, con l'entrata in vigore del Trattato di Schengen che eliminava i controlli alle frontiere interne della Comunità, si veniva a determinare una sorta di solidarietà di fatto tra gli Stati membri, tutti chiamati a partecipare degli effetti delle decisioni dei partner in tema di accoglienza (e, purtroppo, anche degli effetti delle loro negligenze in tema di controllo alle frontiere per prevenire fenomeni di immigrazione clandestina).
Di conseguenza, con il Trattato di Maastricht (1992) e con il Trattato di Amsterdam (1997), si è, dapprima, inserita la materia dei visti, dell'asilo e dell'immigrazione sotto l'ombrello dei poteri dell'Unione, affidandola alla cooperazione intergovernativa tra gli Stati membri, poi la si è resa competenza comunitaria a tutti gli effetti (art. 63 TCE). Non è stata che la presa d'atto del fatto che gli Stati sono ormai sedi inadeguate per una disciplina efficace della materia. Scopo dichiarato delle nuove competenze comunitarie è garantire la libera circolazione delle persone, siano esse cittadini europei o provenienti da Paesi terzi, garantendo al contempo la sicurezza dello spazio europeo.
Indubbiamente una cosa è la previsione di strumenti istituzionali e competenze, un'altra è disporre di una disciplina completa in materia, ciò che richiederà, naturalmente, tempi tecnici. Il valore aggiunto della nuova normativa, quando sarà in vigore, consisterà nel consentire ai lavoratori migranti di spostarsi liberamente sul territorio comunitario per rispondere, ad esempio ad offerte di lavoro, una volta entrati in uno degli Stati membri.
Ma, se questa è la prospettiva, qual è lo status oggi degli immigrati nei Paesi europei?
Il diritto di non subire trattamenti discriminatori è previsto dalle leggi fondamentali di tutti i Paesi membri (in Italia vedi anche Legge 40/98), come dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, ratificata da tutti i Paesi comunitari e fonte a cui attinge la Corte di Giustizia CE per colmare le lacune del diritto comunitario. Agli strumenti menzionati si è aggiunta la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, proclamata solennemente a Nizza nel dicembre 2000 (il cui articolo 21 è espressamente dedicato alla non-discriminazione).
Tra le novità vanno altresì segnalate la competenza del Consiglio dell'Unione ad adottare provvedimenti per combattere le discriminazioni basate sul sesso, la razza, l'origine etnica, la religione, le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali (art.13 TCE), e la possibilità di impiegare la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale per combattere il razzismo e la xenofobia.
Se, per la categoria dei diritti dell'uomo, compresi quelli connessi allo status di lavoratore, non si può dire che oggi manchino gli strumenti di tutela dei cittadini provenienti dai Paesi non comunitari, ancora scarsi sono però i diritti politici o di partecipazione. Se i diritti di associazione e di manifestazione del pensiero possono ben essere dati per scontati nell'ambito di sistemi democratici, raramente si esercitano nei canali della democrazia rappresentativa. E', infatti, competenza degli Stati ospitanti decidere di ammettere al voto nelle elezioni amministrative chi vive e lavora nel proprio territorio, sia pure a determinate condizioni, ovvero di predisporre altri strumenti di partecipazione diretta o rappresentativa, né si potrebbe configurare al momento alcuna competenza comunitaria in materia. Si spiegano così realtà molto diverse da Stato a Stato e addirittura, alle volte, da una realtà locale all'altra. Nel febbraio 1992 il Parlamento europeo ha raccomandato i paesi membri della Comunità di operare per permettere ai cittadini stranieri la partecipazione alla vita pubblica a livello locale, questa raccomandazione è stata accolta dall'Italia e tradotta in legge nel 1994 (legge 203/94).
Ancora più labili sono i contatti diretti tra la Comunità e gli extracomunitari residenti sul proprio territorio: questi si riducono, fondamentalmente al diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, su qualsiasi materia rientri nel campo d'azione della Comunità o la concerna, e al diritto di rivolgersi al Mediatore, sorta di difensore civico nominato dal Parlamento europeo, al quale è possibile presentare denunce riguardanti casi di cattiva amministrazione da parte degli organi europei.
Questi, in estrema sintesi, i motivi per cui è inevitabile che quanti siano interessati di questioni comunitarie trovino oggi di estremo interesse e attualità il tema immigrazione. Vi è, anzitutto, un dato oggettivo: una competenza comunitaria in formazione. Conseguentemente, come in ogni realtà politica e giuridica in evoluzione, anche questa stimola il dibattito, richiede prese di posizione.
Un'Europa fortezza, intesa come isola di benessere indifferente ai problemi fuori delle sue porte è oggi difficilmente ipotizzabile. E' sempre più palese, oggi, la consapevolezza che ogni modello di sviluppo deve fare i conti con ciò che è fuori da sé e che può vincere la sfida del tempo (e oggi anche quella della globalizzazione) solo essendo società aperta, che accetta il dialogo e il confronto con le altre culture. Elemento irrinunciabile di tale modello è un sistema di frontiere aperte, ma nel diritto, perché se è dovere della società che accoglie offrire condizioni di vita dignitose, occasioni di integrazione socioculturale e strumenti di partecipazione alla vita democratica, è dovere di chi accede al Paese ospite accettarne in toto le regole. Non sempre, però, risulta facile per un ospite straniero orientarsi nella giungla di normative che riguardano la sua "regolarizzazione"; né è agevole cogliere a pieno la portata degli obblighi, ma anche dei diritti di cui può godere. Ciò accade non solo per una questione linguistica, ma burocratica, legata cioè alla dispersione di competenze locali in materia di immigrazione e alla pluralità dei luoghi entro cui vengono garantiti certi diritti (alla salute, all'informazione, all'educazione...).
Quella che si presenta alla Comunità è dunque, a mio avviso una scelta obbligata. Vi è costretta dalle circostanze, ma anche dalla sua storia, dalla sua filosofia. I suoi valori fondanti si incontrano sul punto: non solo la solidarietà tra Stati membri e verso l'esterno, la tradizione di multiculturalità, ma anche i principi liberali che la impregnano: il diritto di concorrenza, la libera circolazione intesa come fattore di crescita e di sviluppo, il suo essere, come più volte ribadito dalla Corte di Giustizia, "Comunità di diritto".

Susanna Cafaro
Ricercatrice di Diritto internazionale
Università di Lecce
membro del Comitato scientifico del Punto Europa

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